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11 Settembre 2018

La comunità antidoto agli abusi

Dott.ssa Chiara D'Urbano News

Giornali e tv sono pieni di notizie e polemiche sullo scandalo degli abusi nella Chiesa cattolica. Che ne pensa?

Accolgo volentieri la sua richiesta. L’argomento è complesso, per cui nel breve spazio di questa rubrica mi limiterò a trattarne solo un aspetto. Credo valga la pena riflettere su un dato riportato nello studio commissionato dalla Conferenza Episcopale Americana, The Nature and Scope of Sexual Abuse of Minors by Catholic Priests and Deacons in the United State 1950-2002, poi ripreso nel successivo The Causes and Context of Sexual Abuse of Minors by Catholic Priests in the United States, 1950-2010: i preti abusanti sono per la maggioranza diocesani (69%). Quelli religiosi, che vivono in una realtà comunitaria, sono invece meno della metà del totale. Inoltre, nel 40% dei casi, il primo abuso avviene tra i 30 e i 39 anni di età.

Ora, sebbene sia chiaro che non esiste un determinismo assoluto (causa-effetto) nei processi umani, né un unico fattore che possa essere identificato all’origine di una devianza, i numeri riportati fanno riflettere. Lo stesso documento Causes and Context osserva che il prete diocesano spesso vive da solo nella propria parrocchia, o tutt’al più con un altro sacerdote. Talvolta è isolato geograficamente e la maggior parte degli abusi avviene nella sua residenza.

Ciò che colpisce è proprio l’aspetto della solitudine, non dal punto di vista del celibato, argomento molto “caro” a chi tenta di screditarlo collegando questa scelta alla corruzione sessuale, ma in quanto rimando alla povertà di relazioni umane che spesso caratterizza la vita del prete diocesano, al di fuori della sua attività ministeriale.

L’assenza di una famiglia propria, infatti, rende estremamente importante che il sacerdote costruisca rapporti paritari, cioè non solo di “servizio” parrocchiale o pastorale.

Come rapporti paritari si intendono prima di tutto l’amicizia e l’aiuto reciproco, senza i quali anche l’essere umano più equilibrato, a lungo andare, rischia di perdere il proprio orientamento, schiacciato dagli oneri pastorali e privo di ricarica affettiva.

Non bisogna dimenticare che l’umanità è la base indispensabile sulla quale la grazia opera e di cui non può e non vuole fare a meno. Si potrebbe dire che quanto più l’umanità è solida ed armoniosa, tanto meglio l’opera di Dio può procedere.

Etty Hillesum, morta nei campi di concentramento all’età di 27 anni, scriveva, con un’immagine molto singolare, ma anche molto efficace: «Non basta predicarti, mio Dio […] bisogna aprirti la via […]. Ti prometto, ti prometto che cercherò sempre di trovarti una casa e un ricovero. In fondo è una buffa immagine: io mi metto in cammino e cerco un tetto per te» (Diario, 1941-1943). Credo sia un’espressione bellissima.

L’umanità che si offre a Dio e si dona ai fratelli e alle sorelle, rimane fragile, bisognosa degli altri. E meno male, sarebbe davvero triste l’autosufficienza. Dio ha bisogno che gli uomini e le donne si diano una mano, e che gli diano una mano! Neppure lui vuole essere autosufficiente.

Il documento Cause and Context, inoltre, ricorda che il sacerdote diocesano è spesso privo di confronti nella vita quotidiana, a differenza di quello che ha una comunità di fratelli intorno. Non è un dettaglio.

La possibilità di raccontare “come è andata oggi”, di pregare insieme, di avere qualcuno che si preoccupa se un tu manchi a tavola, crea una dimensione familiare fondamentale per l’equilibrio psicoaffettivo di chi ha fatto una scelta vocazionale. Un amico sacerdote mi diceva quanto era importante per lui sapere che c’erano dei fratelli intorno che lo “guardavano” e, in caso di bisogno, potevano afferrarlo per i capelli e tirarlo fuori dal fango.

Il dono di sé può perseverare ed avere meno occasioni di caduta solo se vissuto all’interno di un contesto umano fraterno, dove, cioè, ci siano scambi quotidiani, fatti di incontri anche semplici, ma costanti, che rendono più leggeri gli impegni parrocchiali e le preoccupazioni che normalmente le persone riversano sul sacerdote.

È fondamentale che fin dagli anni formativi si insista sulla necessità che il sacerdote, una volta uscito dalla confortante struttura del seminario, abbia sempre vicino dei punti di riferimento – il documento Cause and Context parla di “supervisione” – e magari, dove possibile, costituisca una fraternità con altri sacerdoti con cui condividere alcuni momenti della giornata.

Oggi, soprattutto i giovani preti, quelli più a rischio di sentirsi soli e rimanere schiacciati dal lavoro (burn out), lo stanno comprendendo, per cui sempre più spesso creano piccoli gruppi di vita insieme.

La comunità di per sé non può impedire cadute ed espressioni fragili dell’umanità dei propri membri, tuttavia può rappresentare una fortissima prevenzione, comunicando calore, vicinanza, solidarietà, attenzione all’altro.

Anche noi laici, spesso distratti, siamo importanti: possiamo far sentire i sacerdoti accolti, rispettati e stimati. Credo che avere una comunità intorno, laici e consacrati, sia “vincente” per rendere più umane e meno solitarie le nostre giornate.

Recensione: Psicologia e accompagnamento della scelta vocazionale VITA IN COMUNE: PROFEZIA O ILLUSIONE?

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