“La mia gente, la mia comunità”. La paternità pastorale
“La mia gente, la mia comunità”.
La paternità pastorale L’anno di San Giuseppe, un prezioso tempo di riflessione sulla paternità pastorale.
“Il nostro cammino matura verso la paternità pastorale, verso la maternità pastorale, e quando un prete non è padre della sua comunità, quando una suora non è madre di tutti quelli con i quali lavora, diventa triste.” Cosi diceva Papa Francesco il 6 luglio 2013, incontrando le novizie e i novizi di tutto il mondo.
A otto anni di distanza possiamo leggere questo anno dedicato a San Giuseppe, padre casto, un prezioso invito per raccogliere quelle parole e declinarle nell’oggi del ministero sacerdotale. Un oggi in cui il tempo della pandemia ha portato i sacerdoti a rivedere il loro stesso essere pastori nel concreto svolgersi della loro vita di sempre. Non solo per il tempo delle celebrazioni senza popolo, ma anche e soprattutto per un nuovo modo di stare tra la loro gente, fatto di incontri, di volti, di relazioni vitali con ogni generazione.
Nella lettera apostolica “Patris corde”, papa Francesco afferma : “Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. “
Cosa significa essere pastori e padri nella Chiesa di oggi? Come poter rilanciare la paternità pastorale ?
Una paternità che nasce dal celibato
Anzitutto non possiamo considerare la paternità spirituale e pastorale se non partiamo dalla realtà paradossale dalla quale esse nasce e a cui è intimamente legata: il celibato.
Il celibato è un paradosso perché si colloca fra i due estremi, egualmente errati, della rinuncia e dell’eccessiva spiritualizzazione dell’amore umano sessuale. Da un lato il celibato è obiettivamente una mancanza: mancanza di un rapporto di sponsalità con una donna e alla paternità nella carne. Umanamente parlando si tratta di due ammanchi secchi, e occorre estrema sincerità nel riconoscerlo. Se per un prete, o per un candidato al sacerdozio, queste mancanze non dovessero apparire tali, e nemmeno una obiettiva difficoltà sul piano umano, di tale soggetto si dovrebbe immediatamente sospettare quanto al suo equilibrio e al suo tendere ad una maturità affettiva come uomo. Dall’altra parte il celibato appare una mancanza solo se non vengono in soccorso la luce e la grazia della rivelazione cristiana. Solo per una bellezza e un senso infinitamente più grandi sarebbe possibile vivere la mancanza dell’amore umano sessuale. Tale bellezza e tale senso sono appunto il rapporto totalizzante con Cristo (metafora nuziale), il servizio paterno e fraterno alla Chiesa (metafora paterna del Regno da edificare) e la radicale povertà di spirito che diventa spazio per la presenza beatificante di Dio (metafora della signoria di Dio).
La paternità affidataria come metafora della paternità pastorale
A queste metafore, certificate dalla tradizione, ne aggiungerei un’altra sulla quale si potrebbe convenientemente riflettere: l’analogia fra la paternità del prete e la paternità che si realizza nei casi di adozione e di affido. Dove si tratta, evidentemente, di effettuare un duplice riconoscimento (del figlio da parte del padre, ma anche del padre da parte del figlio) in assenza, e non in presenza, di un dato biologico di paternità naturale.
Credo , che in questo tempo particolare, questa metafora possa essere particolarmente interessante per essere padri dal coraggio creativo, come invita papa Francesco nella sua lettera.
La paternità come forma di genitorialità. si gioca su tre registri : quello biologico, quello accuditivo ed educativo, quello storico-paradignatico La paternità affidataria a differenza di quella naturale si gioca solo sugli ultimi due registiri e in questo senso la paternità spirituale e pastorale può essere assimilata ad essa.
Nella paternità affidataria il padre è chiamato a immettere nella vita, nella realtà del mondo un figlio che non gli appartiene e di cui deve salvaguardare sul piano storico e identitario l’appartenenza alle sue origini. Se non viene garantito sul piano identitario il legame tenace con le origini e la stirpe familiare di appartenenza, si rischia di impedire al minore di godere i benefici che l’esercizio del registro accuditivo ed educativo esplicato dal padre affidatario potrebbero apportargli in termini di trasmissione di valori, ideali, senso del limite, regole di vita.
Ad un sacerdote è affidata una comunità che non gli appartiene, ma di cui come un padre affidatario è chiamato a garantire l’appartenenza originaria, alla Chiesa. perché solo cosi potrà far godere alla comunità stessa o a coloro che beneficiano del suo ministero quella cura di cui egli stesso è portatore.
Lo psicoanalista francese Dolto parla di “castità di desiderio verso i figli” ossia “ la capacità di amarli rimanendo liberi dal bisogno e dal desiderio di possederli”, che nella paternità affidataria si concretizza come svolgimento di una cura responsabile senza il bisogno di inglobare il figlio nella storia familiare, mediante un cognome o l’assimilarlo al proprio orizzonte culturale e sociale.
La paternità pastorale e spirituale è una paternità matura quando evolve dal sacrificio di sé al dono di sé. Il dono di sé vive della fiducia in un legame nel quale si dà, si riceve e si ricambia affetto – “ mi muovo e agisco per la mia gente”- e nel quale si dà anche a se stessi e agli altri il senso del limite e della differenza, diventando degni della fiducia della comunità nel mondo dei fatti e dell’apertura a spazi inediti.
La paternità pastorale e spirituale si gioca nel concreto come ricevere-dare e ricambiare un dono, che diventa il dono di sé.
Ricevere è riconoscere il dono che la comunità o le persone affidate sono tali, con le loro peculiarità e differenze rispetto ad altre.
Dare è mettere in atto un dinamismo di cura e di servizio attraverso cui esprimere la responsabilità della protezione- il pastore è guardiano del gregge. Ricambiare è tradurre nella propria paternità la paternità del Padre sperimentata verso se stesso, incontrata nella Parola e nella vita da parte di coloro che sono stati padri nella fede e nella testimonianza della vita. Il ricambio quindi diventa essere dono di sé sul modello di Colui che è Dono e che in quella comunità chiede di rinnovare attraverso il dono di sé il suo Essere Dono concreto.
Accogliere e lasciare andare, senso dell’inutilità e cura delle eredità. Verso una paternità pastorale matura
La paternità pastorale e spirituale come quella affidataria vive la sfida dell’accogliere e lasciarsi accogliere da una parte e dall’altra quella di lasciar andare e ripartire. L’accoglienza delle differenze rappresentate dalla novità è ciò che genera familiarità nel tempo.
Una familiarità che è temporanea e nutrita dall’essere dentro la famiglia più grande della Chiesa e solo rimandando sempre ad un’appartenenza ecclesiale che va oltre e che tutto custodisce , ci si potrà aprire al lasciar andare e a ripartire. Le esperienza vissute non si perdono, ma restano memoria grata che dà valore alle nuove, portando in salvo la bellezza delle differenze di incontri, di eventi, di passi attraverso cui il Signore non smette di educare alla paternità che è riflesso della sua.
Il padre affidatario è chiamato a lasciar andare il figlio affidato, come Giuseppe che riceve dal Padre Gesù in affido, affinché compisse l’opera del Padre stesso. Cosi il sacerdote che è padre della sua comunità è chiamato a lasciarla andare nelle mani di qualcuno altro, come lui stesso l’ha ricevuta dalle mani di qualcun altro. Il passaggio come consegna in cui si riceve e si ridà è la cifra di una paternità pastorale matura, in cui quella che per un tempo è stata “la mia gente, la mia comunità”, diventa ora la “tua gente, la tua comunità”, nell’orizzonte più ampio dell’essere “la nostra gente, la nostra comunità”, perchè dentro la storia più ampia della Chiesa diocesana o della famiglia religiosa a cui si appartiene .Il passaggio cosi vissuto da lutto- lasciare e essere lasciati- come apre ad una rinascita, che fa rileggere il cammino precedente e apre a un nuovo passo.
E nel passaggio come momento critico della paternità, termometro della sua maturità affettiva, nel suo confrontarsi con il senso dell’inutilità , emerge anche il tema della cura delle eredità. Un padre che è tale si preoccupa di lasciare qualcosa in eredità ai figli, nella logica del passaggio generazionale, che tiene in vita qualcosa da una generazione all’altra.
E’ una sfida interessante per la paternità pastorale, chiamata a preoccuparsi mentre si esercita di cosa lasciare in eredità a quanti affidati alla propria cura, in chiave però generazionale, cioè in una spinta creativa dentro una storia comunitaria, fatta sempre di un prima e di un dopo.
E intorno a questo tema del rapporto tra le generazioni nel presbiterio e nella famiglia religiosa, che si gioca il futuro degli stessi. La paternità quindi è paradigma identitario da riassumere in questo tempo non solo nell’esercizio pastorale, ma nella stessa appartenenza presbiterale o religiosa.
Chiara Griffini
Psicologo-Psicoterapeuta
Consacrata Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII