La seconda vocazione
Sono una consacrata con molti anni sulle spalle, di vita e di esperienza comunitaria. Se mi chiede se sono felice le dico di sì! Ma «diversamente» dall’inizio, ormai più di 40 anni fa. Quello che voglio condividere non è tanto la mia vita quanto l’esperienza che ho attraversato. Ad un certo momento del mio percorso mi sono innamorata di un uomo con cui collaboravo e per me è stato sconvolgente, credevo di essere immune da cadute o crisi, e questo evento inatteso mi ha fatto molto male. In un certo senso mi ha delusa… ero delusa da me stessa, perché sentivo di aver perso la freschezza degli inizi, di non riuscire ad alimentarmi dell’ideale dei primi tempi.
Arrivo al punto: questo momento è stata una cesura, è stata la mia ripartenza: ho dovuto rivedere la mia «idea» di vocazione, mi sono confrontata con la corporeità di cui facciamo dono noi consacrati. Dalla teoria astratta la mia esistenza si è incarnata. Con questo vorrei incoraggiare formatori e formatrici da una parte, e giovani dall’altra, a non spaventarsi se la vocazione ad un certo punto «cambia», si invera, sembra diversa da quella originaria. È diversa sì, ma forse più autentica! Nessuna paura, allora, quando ci sono momenti forti, forse sono la porta per un salto di qualità. Una consacrata 70enne
In comunità ho avuto un discreto «successo» umano, fin da giovane ho goduto della fiducia dei miei formatori e già nei primi anni dopo la professione ho ricevuto incarichi di accompagnamento, e poi di governo. Umanamente si potrebbe dire una vita realizzata. Ma ad un certo punto il buio. Non c’erano ragioni perché mi sentissi «depresso» eppure io mi percepivo così, con un non-senso di tutto, come se, raggiunte quelle vette, la vita comunitaria e quella con Dio mi sembrassero prive di significato. Forse un eccesso di lavoro, o forse il bisogno di ritrovare le motivazioni profonde, perché quelle dell’inizio non mi convincevano più.
Molte tradizioni della mia realtà mi sembravano ormai da superare, il modo di condurre l’apostolato troppo vecchio… insomma proprio io che avevo responsabilità importanti sentivo l’urgenza di prendere aria e mettere aria dentro la nostra realtà carismatica. Può immaginare lo spavento: temevo di aver buttato all’aria tanti anni di vita e che non avrei più ritrovato la mia strada. Non è andata così. Anziché sotterrare tutto questo, mi sono preso il tempo di pensare e parlare di quello che stava accadendo in me. Fratelli e superiori non mi hanno preso per “matto” o egoista/capriccioso. Hanno avuto la lungimiranza di comprendere che forse poteva essere un momento prezioso per tutti, per ripensare sul serio alcune consuetudini e perché io stesso potessi conoscere il «nuovo me» che emergeva. Non si sono spaventati, questa è stata la cosa grande. Di solito quando in comunità si manifesta inquietudine si pensa subito: «ecco sta in crisi!». Eppure le crisi possono essere davvero una seconda vocazione. Un consacrato
Le due testimonianze che ho voluto condividere in questa rubrica sono state solo rese anonime togliendo nomi e luoghi, ma sono integrali e autentiche. Da parte mia, condivido appena qualche risonanza.
È profondamente vero che dopo la «prima vocazione», quella dell’innamoramento iniziale, bellissimo ma disincarnato, arriva il momento in cui le farfalle nello stomaco sembrano volare via… Può accadere che la persona che aveva ispirato quel percorso di vita abbandoni la vocazione e scelga altro; può accedere che, come la religiosa, quando si credeva di aver dato tutto il cuore a Dio, ci si accorga che il cuore è rimasto di carne. Può accadere, ancora, che cambi lo sguardo sul carisma e la realtà comunitaria, perché ciò che prima convinceva ora scricchiola, se ne vedono limiti e nuove potenzialità ancora inesplorate.
È il momento della cosiddetta crisi, tema che attraversa l’Amoris Laetitia in un modo davvero straordinario. La crisi non è la caduta irreversibile, una perdita di fede o un indebolimento della buona volontà – lettura che si rischia di fare negli ambienti vocazionali –. È invece parte integrante della vita della famiglia, «della sua drammatica bellezza» (AL, 232) e noi possiamo estendere la riflessione di questo paragrafo alla coppia matrimoniale, alla storia di ciascuno di noi, all’esperienza vocazionale.
Non si risponde a 20, 30, 40 anni, passando poi il resto del cammino di vita vagheggiando i tempi d’oro, quando tutto sembrava scorrevole e leggero, quando non c’era bisogno di convincersi perché le cose comunitarie o di apostolato era attraenti e motivanti in se stesse.
Il n. 233 dell’AL prosegue così: «La reazione immediata è fare resistenza davanti alla sfida di una crisi, mettersi sulla difensiva sentendo che sfugge al proprio controllo, perché mostra l’insufficienza del proprio modo di vivere, e questo dà fastidio. Allora si usa il metodo di negare i problemi, nasconderli, relativizzare la loro importanza, puntare solo sul passare del tempo. Ma ciò ritarda la soluzione e porta a consumare molta energia in un occultamento inutile che complicherà ancora di più le cose […]».
Gli anni trascorsi vivendo insieme ad altri e impegnandosi nell’apostolato permettono alla persona di conoscere se stessa in un modo nuovo. Questo vuol dire crescere: lasciarsi interrogare e scomodare dalle esperienze che si fanno, e avere il coraggio di entrare nel cambiamento per comprenderne la portata. Il voler lasciare le cose come stanno, o cercare di evitare il passaggio dalla vita “innocente” a quella adulta fa sì che si costruisca una bolla in cui si rimane aggrappati al “ricordo” di come si era, di «come era la nostra Congregazione… quando ancora c’era il fondatore… quando ancora le cose andavano come dovevano andare, senza troppi grilli per la testa… ora qui non si capisce più niente».
Credo che, anche senza volerlo cercare, il momento del disincanto arrivi sempre (è auspicabile che arrivi, anzi). Può assumere l’aspetto del buio di cui parla il formatore, può essere quel senso di inquietudine in cui diventa fortissima la voglia di capire di nuovo, di trovare nuove risposte, di dare forma al dono di sé a Dio non procedendo per inerzia o secondo linee preconfezionate (cf. L. Bruni, https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-beatitudine-della-sete).
Cosa si fa, allora? Come si capisce che non è la fine di tutto? E chi sta intorno cosa può fare di fronte ad un fratello/sorella che sembra «fuori rotta»?
Prendo spunto dalle due testimonianze:
- le comunità, le strutture formative che non coltivino l’infantilismo dei propri membri sono quelle in cui, paradossalmente, si discute, si può non essere sempre d’accordo, dove c’è una pluralità di punti di vista che non viene azzerata; dove le persone diventano autonome (che non vuol dire isolate o a sé);
- ciascuna vocazione si realizza nella fraternità e attraverso la fraternità, tuttavia ogni storia è originale, non segue un cliché, per cui fare confronti tra il cammino di Marta e Fabio con quello di Francesca e Lucio può essere fuorviante;
- come ha scritto il formatore: è fondamentale prendere sul serio, senza demonizzare o condannare, l’inquietudine, la delusione o l’apparente smarrimento che attraversa un fratello o una sorella. Direi che ciascuno ha diritto di trovarsi al buio perché quello può essere il momento della ri-scelta, più autentica. Ciò non vuol dire abbandonare a se stesso chi vive un tempo forte, vuol dire, piuttosto, rendersi presenti, dire «ci sono se hai bisogno di parlare», ma senza pretesa di dare risposte, né allarmismi catastrofici, o giudizi pesanti («chissà cos’ha in testa!»);
- a rendere salvifica la crisi è il suo esito: la persona allarga il proprio cuore, attraversa il buio ma non ci rimane dentro isolandosi dagli altri, «non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa» (AL, 232).
Non parlo, quindi, di un happy end, da «e vissero tutti felici e contenti», ma di una consapevolezza nuova, in cui ci si dispone a camminare tra fatiche ed imprevisti, a lasciarsi sorprendere dalla storia propria e altrui. Più benevoli, meno rigidamente ancorati a quelle sicurezze che in realtà ci lasciavano immobili.
Aggiungo una nota che torna spesso in questo spazio di rubrica: l’imparare a essere felici in modo nuovo lo intendo come felicità relazionale, non solo individuale. I passaggi di vita in cui percepiamo di aver fatto un salto di qualità sono quelli che ci rendono persone autentiche, ma anche generative.
Il contagio è (dovrebbe essere) reciproco: una vocazione che riprenda vigore dovrebbe contaminare e influenzare la vitalità comunitaria. Questa però, a sua volta, è chiamata a incoraggiare e a lasciarsi interpellare dalle nuove intuizioni – la seconda vocazione – di ciascun fratello o sorella.