Le nuove sfide della vita consacrata. Siate felici!
Il cambiamento epocale in corso è ormai fuori discussione. Non uno dei tanti della storia e non semplicemente, come invece potrebbe apparire, l’arrivo di una qualche innovazione tecnologica che, come fu per la stampa, la televisione, l’automobile, incide significativamente sulla vita della persona.
Noi siamo spettatori e insieme protagonisti di una rivoluzione antropologica di cui la tecnologia è solo l’eco, eco – c’è da dire – prodigiosa che, dopo aver colto i segnali di un disagio in atto, ha saputo amplificarne la portata, contribuendo, questo sì, a scardinare valori e strutture vacillanti e già piuttosto confusi. Al troppo solido che ha caratterizzato certe fette di storia, la reazione a pendolo è stata ed è, forse inevitabilmente, quella di un troppo liquido.
Se volessimo immaginare degli slogan riassuntivi del momento, ne potremmo ideare alcuni ad hoc: “l’amore è eterno finché dura”, “ho bisogno dei miei spazi per ritrovare e realizzare me stesso”, “ciascuno deve poter fare come si sente”.
Proposte rapide, economiche, indolori, di controllo e gestione della vita.
Illusione dilagante di onnipotenza camuffata da paradigmi altrettanto illusori, ma dalla veste nobile, di libertà, di neutralità (chissà poi cosa sia questa tanto inneggiata neutralità, concetto superato perfino in psicanalisi che pure ne faceva il proprio cavallo di battaglia), di tolleranza e apertura verso qualunque possibile scelta.
Sì…ma che c’entra tutto questo con la vita consacrata?
Anch’essa vive la sua stagione di “rivoluzione” epocale, al di là dell’innegabile calo numerico.
Si può parlare quindi di crisi? Dipende dai punti di vista, ma è certo che immaginare la scomparsa della vita consacrata sarebbe come immaginare un corpo (l’umanità) senza cuore e senza arterie.
Se proprio vogliamo parlare di “crisi” intendiamola piuttosto come un momento necessario di restyling: il postmoderno tecnoliquido1 sollecita con urgenza la riaffermazione del senso di una scelta “forte” non soggetta a mode, ed insieme la ricerca di un linguaggio interno ed esterno che invece va calato nella storia e nella cultura.
C’è un’anima divina e trascendente da preservare dalla furia innovativa del terzo millennio e un volto umano troppo a lungo trascurato nella vita consacrata e nella sua formazione, che quindi va recuperato.
L’anima trascendente: la passione per Cristo in un carisma specifico.
Non una scelta aziendale, di competenza professionale, ma la risposta ad una proposta dello Spirito Santo di rapporto, rapporto con Gesù, secondo l’intuizione del Fondatore/della Fondatrice.
Non da poco una sfida del genere oggi!
In una società che tende ad esaltare il tangibile e il piacere concreto, la vita consacrata ha il coraggio di mantenere il proprio centro in una dimensione altra, dove molte categorie ordinarie saltano e ne sono proposte alcune assai “bizzarre”: l’obbedienza contro l’autoaffermazione egoistica, la comunità e le relazioni comunitarie contro il narcisismo diffuso…
Tuttavia se la riflessione si fermasse qui sarebbe monca, sbilanciata sul versante teologico e non integrata con la dimensione antropologica della speciale vocazione alla vita religiosa.
Il rischio, infatti, è che passi in sordina il dovere di essere felici che è tanto umano quanto di fede e che la vita consacrata si renda meno credibile qualora mancasse il potente ingrediente di volti contenti.
La questione è articolata, non bastano poche battute.
Per molto tempo la formazione ha insistito quasi esclusivamente sulla dimensione spirituale e volontarista, “se vuoi ce la puoi fare, se cadi è perché non hai voluto il bene abbastanza”.
P. Rulla2 direbbe che la vita consacrata si è concentrata prevalentemente sulla cosiddetta I dimensione dell’essere umano, quella in cui l’uomo è visto nella sua capacità prevalentemente conscia e libera: l’uomo è capace di compiere ciò che sceglie, “lo voglio, lo faccio”. Se sceglie il bene è “buono” o “virtuoso” e si autotrascende verso Dio, se sceglie il male è “cattivo” o “peccatore” e rifiuta l’autotrascendenza.
Questa prospettiva tipicamente pre-conciliare, pur corretta questo è certo, è però parziale; l’uomo non procede nella vita solo attraverso i buoni propositi sostenuti dalla sua buona volontà e non lo si può colpevolizzare per mancanza di fede qualora inciampi o non riesca a procedere linearmente. Di conseguenza formare persone che scelgono di consacrarsi non può tradursi solo in un potenziamento della volontà perché il rischio che ne consegue è quello di esaltare le “opere” da compiere e i sacrifici richiesti per giungere alla vetta, a scapito della bellezza di una vita che, prima di essere un “impegno” è innanzitutto un dono d’amore.
In questa luce prendono ancora meglio corpo le parole del Papa che invitano alla gioia, alla fraternità, all’uscita da sé per non correre il rischio di rendere la vita religiosa un ambiente di “zitelle” e “zitelli”, che si nutrono di mormorazioni e che stentano a creare rapporti di comunione e di amicizia3.
Questo accade? Talvolta, sì. Accade che, complice anche il crescente numero di anziani e la quantità di opere a cui dover far fronte, la vita religiosa sia schiacciata dalle “cose” da portare avanti mentre passa in secondo piano la qualità dei rapporti tra fratelli e sorelle, dimentichi che prima di tutta Essa è una proposta di vita, dunque un “pieno” da vivere e testimoniare e non un cooperativa sociale o un sacrificio da compiere.
C’è da dire che la vita consacrata femminile è quella più a rischio di perpetuare il tanto criticato modello del pre-Concilio nel quale poco o nessuno spazio aveva la bellezza dell’essere umano, post-posta alle sue qualità “produttive”. Il rischio, pertanto, di “confondere l’Istituto con l’opera apostolica”4 è forte; l’autenticità vocazionale non può essere misurata solo sulla base dell’osservanza alla regola e dell’efficienza lavorativa (due indubbi criteri vocazionali – anche se, ricorda il Papa, il lavoro apostolico può essere una fuga dalla vita fraterna5), ma soprattutto sul quesito se quella strada corrisponda alla felicità della persona.
La persona consacrata deve essere una persona felice, non lo si dice mai! Quasi fosse un’offesa alla grandezza della chiamata.
Una felicità che non coincide con l’effimero, lo spettacolare, il light della cultura attuale e tuttavia è felicità, cioè appagamento, condizione di benessere nella quale la persona si senta esattamente nei propri abiti. Chi è appagato non è ripiegato su di sé, non si “inacidisce”, cerca anzi di crescere e di migliorarsi per amore della scelta fatta. Chi è appagato non entra in competizione con l’altro, non finisce nelle maglie dell’invidia, ha voglia di uscire dal centro e di muoversi verso le periferie, tanto care al nostro Papa.
Se dovessimo pensare quindi ad un rinnovamento della vita consacrata e alla necessità di un nuovo linguaggio comprensibile oggi, si potrebbe partire proprio da qui: non tanto un miglioramento pratico o formale di programmi formativi, quanto una nuova prospettiva in cui le persone dovrebbero essere collocate. La strada intrapresa fa sentire la persona “bene”, così da poter essere anche testimone feconda per il mondo?
Certo: di quale bene di tratta? Adattiamo ancora dal padre Rulla la distinzione tra bene reale e bene apparente6, laddove il bene apparente è quello “parziale”, cioè che non è male, ma non corrisponde al bene integrale della persona, in quanto soddisfa piuttosto bisogni immaturi. Una strada, buona in se stessa, può non esserlo per quella persona concreta perché in realtà non la rende felice, cioè non la aiuta a raggiungere Cristo (perché i due aspetti si corrispondono!), ma lascia aree di insoddisfazione che a lungo andare creano feritoie dove si svilupperà, nel tempo, una vera spaccatura, la famosa crisi vocazionale che, se non porta all’uscita dalla vita religiosa, conduce sovente alla peggior condizione dei nidificatori7.
Torniamo, per concludere, al punto di partenza del restyling della vita consacrata.
Il mondo ha bisogno di proposte solide e di senso, che non siano semplicemente conformi alle mode correnti solo per risultare gradite: la vita consacrata ha il coraggio di mettere Cristo e la Sua parola al centro senza paura che sembrino troppo scomodi!
Insieme però va trovata una grammatica con cui trasmettere tutto questo, perché la lingua evolve e deve poter interagire con la storia e la cultura. In una società così tendente alla depressione, sempre accelerata e fugace nei contatti reciproci una testimonianza credibile ed incisiva possono offrirla volti felici e ambienti di vita che siano spazi privilegiati di gioia, gioia che viene non solo dalla relazione con Cristo, ma anche da rapporti umani affettuosi, attenti, autentici e caldi.
Vale la pena investire sulle relazioni comunitarie di cui la vita consacrata è o dovrebbe essere l’esperta per eccellenza, e la leadership nella vita religiosa potrebbe essere ripensata proprio in questa direzione, meno gestionale e rigidamente gerarchica, e più di “animazione” verso la fraternità, il mondo ne ha urgenza! C’è troppa solitudine e bisogno di ascolto e la vita comunitaria consacrata rimane oggi l’unico spazio per riappropriarsi o apprendere il ritmo della solidarietà e dell’attenzione all’umanità propria e dell’altro.
“Persone che prima nemmeno si conoscevano, divennero fratelli fino ad attuare la comunione dei beni materiali e spirituali, gente fino e ieri dispersa divenne popolo, comunità, porzione di chiesa viva”8.