L’identità di un carisma
La ringrazio per il suo servizio e il suo coraggio nell’approcciarsi alla Vita Consacrata. Questa Vita Consacrata femminile (che è molto diversa da quella maschile, se ancora possiamo usare questi due aggettivi), è una vita meravigliosa, ma oggi viene bersagliata e minacciata in mille modi, molto spesso non solo dal mondo nella sua mondanità, ma anche dagli stessi consacrati e dallo stesso mondo ecclesiale. Non è sempre così chiara la nostra identità, il nostro ruolo e il nostro posto in seno alla Chiesa.
Non possiamo rischiare di diventare qualcosa di ibrido e indefinito, come donne non dobbiamo scimmiottare nessuno, occorre invece recuperare tutta la nostra femminilità per essere donne di Dio, madri, sorelle, amiche, cittadine di questo tempo.
Mi rendo conto, come consacrata e anche come Madre Generale di una Congregazione religiosa, che dobbiamo trovare il coraggio di entrare e avviare in maniera più decisa e determinata un processo di rinnovamento e svecchiamento.
Ma come gettarci dentro questo percorso di svecchiamento, per far risplendere tutto il bello della vita che abbiamo scelto, come non perdere lo spirito missionario ed evangelico? Come non tradire la nostra storia, il carisma, le tradizioni che ci hanno animato nel tempo, ma rimanendo donne felici? Come non diventare prigioniere delle nostre strutture, testardamente trincerate per difendere casa, opere, pastorali che forse vanno riviste, rivalutate, ripensate in modo nuovo. In tutto questo non vorrei solo trovare risposte, ma accendere desideri. Una Responsabile Generale
La ringrazio per le sue riflessioni appassionate ed attuali. Approfitto delle sue testuali parole «non vorrei solo trovare risposte» per offrirle considerazioni più che soluzioni. Credo che la vita consacrata, femminile e maschile, abbia la possibilità non solo di “sopravvivere”, ma di portare un contributo enorme nel nostro tempo. Solo però se affronta con coraggio il ripensamento delle proprie strutture, delle opere di apostolato e dello stile relazionale all’interno della comunità, oltre che delle modalità di discernimento, ma quest’ultimo è un tema a sé. Le parlo con schiettezza, grazie alla fiducia che Lei mi rimanda.
Qualche pennellata. Mi sembra importante che ciascuna realtà carismatica definisca cosa è essenziale e cosa non lo è della propria identità, ad esempio alcuni aspetti del vivere insieme, il tipo di missione (a chi è rivolta e come), quale sia il “cuore” del carisma. Devono essere pochi punti, sintetici e chiari.
Uno dei limiti che finora ha gravato sulle realtà di vita consacrata è che l’identità ha finito per coincidere con una marea di micro-dettagliche hanno cucito le persone in spazi assai ridotti di crescita, finendo per soffocare la vitalità dei gruppi. Più volte ho potuto constatare come anche gli aspetti concreti della vita ordinaria (come apparecchiare, per dirne uno) erano letteralmente normati secondo delle consuetudini, sicuramente valide, ma non dogmatiche, e che impedivano di utilizzare quel minimo di buon senso personale e soggettivo per svolgere una semplice mansione.
L’iper-regolazione di tutto favorisce l’infantilismo, riduce la creatività delle persone, e tende a deresponsabilizzare, tanto «è già tutto deciso e io non posso fare niente altro che eseguire».
Lo stesso pericolo di non stimolare la crescita adulta dei membri di comunità si corre quando si porta avanti l’idea, tanto illusoria quanto scorretta anche dal punto di vista psicologico, che ci sia un’unica modalità di vivere l’intuizione carismatica del Fondatore/della Fondatrice. Chi l’ha detto? Il Fondatore, la Fondatrice era uno/a, e non poteva certo prevedere tutte le possibili sfumature individuali. Del resto ciò che lui o lei ha ascoltato dallo Spirito Santo è stato filtrato dall’umanità della sua specifica persona. Dunque non perdere le singole individualità è fondamentale.
Manca ancora un pezzo. Oggi il pericolo maggiore che corrono le comunità è sul versante opposto, e cioè che le singole individualità, con la pretesa di portare avanti le proprie intuizioni, si sentano oltre anche quelle coordinate essenziali, per cui le realtà di vita insieme assomigliano ad ostelli e mense di passaggio. Che fine fa il senso di appartenenza? Dove lo si ritrova?
Per questo ritengo essenziale comprendere ciò che davvero è importante per sentirsi parte di quella famiglia e ciò che invece è legato al tempo, a consuetudini che non sono più utili, a generazioni che ormai si vanno trasformando.
Come farlo? Sarebbe utile, penso, innanzitutto studiare in modo attivo ed attualizzante le proprie fonti carismatiche, anche rispetto ai primi collaboratori del progetto spirituale. Per poi delineare insieme, comunitariamente, la cornice della propria vita cioè le coordinate ampie ed essenziali che sono rappresentative di quella Organizzazione a Movente Ideale e che accomunano le persone che ne fanno parte, oltre le quali il senso di appartenenza si annacqua e perde di significato.
Le faccio l’esempio della coppia sposata: vivere insieme, svegliarsi e addormentarsi insieme, salvo eccezioni, rappresenta un aspetto non solo “pratico” ma significativo dell’essere marito e moglie. All’interno della cornice si devono poi poter costruire percorsi vocazionali a misura personale. E così la coppia lungo il giorno porta avanti il proprio lavoro e diversi contatti relazionali, ma questo non tradisce l’identità matrimoniale.
Il coraggio e l’impegno a studiare, riflettere e dialogare insieme, facendosi anche aiutare da figure esterne e quindi meno coinvolte emotivamente, credo possano “rilanciare” la vita consacrata, che sicuramente attraversa tempi non facili, perché ha potenzialità meravigliose e uniche di cui il mondo ha estremo bisogno.
Nella prossima rubrica approfondirò le differenze tra realtà femminili e maschili (è vero però che ormai si vanno sfumando) e come, in pratica, si possano delineare più nel concreto cornice e dettagli della vita comunitaria.
Fonte: Città Nuova